La partecipazione nell’associazione criminale
La peculiare storia del nostro Paese ha portato il legislatore degli anni ’90 del secolo scorso a confrontarsi con un fenomeno, quello dell’associazione per delinquere, che ha prodotto normativa tutt’oggi oggetto di modifiche e integrazioni.
Non esiste solo “la mafia” intesa come associazione di persone finalizzata alla commissione di reati che ha, come suo modus operandi, l’intimidazione come elemento caratterizzante. Esistono diversi tipi di associazione e, soprattutto, esistono diversi tipi di associazione che esulano dallo “stampo mafioso” che il nostro legislatore ha previsto come fattispecie ad hoc e normato con l’art. 416 bis.
Molto spesso, infatti, le associazioni non sono di stampo mafioso, ma sono “semplicemente” costituite da una molteplicità di soggetti che, con il fine comune di commettere reati, cooperano e collaborano in modalità più o meno stabili.
Pensiamo alle associazioni legate al traffico di sostanze stupefacenti, alle clonazioni di carte di credito online, alle truffe legate al furto di postepay (ultimamente molto in voga, peraltro), e via dicendo…
All’art. 416 c.p. il legislatore qualifica l’associazione proprio con la terminologia “quando tre o più persone si associano con lo scopo di commettere più delitti”. Un piano ben specifico, quindi, quello degli associati, ma non tutti i risvolti sono immediatamente leggibili.
Ad esempio, chi può essere punito per associazione per delinquere? Solo chi commette effettivamente i reati? Chi li studia? Chi favorisce la commissione? Chi sapendo dell’associazione frequenta i sodali?
Possono sembrare banali alcune domande, ma quando si ha a che fare con un’associazione per delinquere ciò che si deve tenere a mente è che l’allarme sociale è molto alto e che, per tale motivo, la repressione è altrettanto ferma.
Andando con ordine, e rispondendo a qualche forse fin troppo semplice domanda, può essere punito sia chi materialmente commette il reato, sia chi lo idea, chi lo promuove e chi lo facilita. In poche parole tutti quei soggetti che con il reato hanno a che fare.
Ma che ne è di chi nulla fa, e magari anche poco sa, ma partecipa alla vita dell’associazione?
Qui si apre la problematica maggiore. Al secondo comma dell’art. 416 c.p., infatti, il legislatore stabilisce una pena per chi “partecipa” all’associazione, lasciando ampio margine di interpretazione rispetto alle effettive condotte delittuose. La giurisprudenza di legittimità ha, a più riprese e con non poche susseguenti innovazioni, identificato il partecipe in colui che, pur essendo estraneo alla commissione dei delitti fine, è inserito nel sodalizio (nel gruppo potremmo dire, per semplificare) e resta a disposizione per attuare un contributo.
Il contributo può essere davvero largamente inteso: potrebbe essere integrato dal fornire un’autovettura ai sodali nel momento della necessità, nell’accompagnare uno o più soggetti negli spostamenti, nel fornire materiali o altro di cui uno o più dei sodali abbiano bisogno. Si tratta, a ragion veduta, di un jolly che viene utilizzato e che partecipa, appunto, occasionalmente e nel momento del bisogno, senza che vi sia necessariamente una sua partecipazione ai reati fine.
Da qui la punibilità di condotte più o meno rilevanti, più o meno pregnanti che conducono un soggetto che si ritenga estraneo ai fatti dell’associazione, partecipe della stessa.
Potrebbe sembrare fin troppo repressiva la norma incriminatrice, ma ha radici che affondano in quella lotta alla criminalità organizzata che, se da un lato ha portato a risposte ferree, dall’altro è giustificata dall’emergenza sociale e politica della fine dello scorso secolo.